
Bioeconomia, una scelta circolare
Tra le parole chiavi utilizzate nelle agende programmatiche del Paese e dell’Europa, il termine sostenibilità è al centro. Abbiamo capito, forse con un po’ di ritardo, che se vogliamo guardare al futuro con moderato ottimismo dobbiamo rendere ogni scelta, ogni azione, ogni progetto poco impattante e altamente efficiente. Ma come? Come possiamo ripensare il nostro modello economico? Come possiamo rivoluzionare un sistema che sembra inamovibile e statico? La risposta, come sempre, ci arriva dalla natura.
Bioeconomia, oltre la definizione
Il modello di sviluppo che abbiamo perseguito nel corso dei secoli, con un’accelerata importante nella seconda metà del ‘900, è fortemente entropico, votato al disordine e al consumo.
Dalla ricerca di un sistema alternativo nasce la bioeconomia: una teoria che ripensa l’idea di sviluppo mettendo al centro la diminuzione progressiva e continua dello scarto. Una visione economica che incorpora al suo interno assiomi di altre discipline, come la fisica e la biologia, e che disegna il sistema economico come un processo continuo verso la sostenibilità ambientale e sociale.
Il modello produttivo da cui muove la bioeconomia è principalmente quello biologico. Il punto di svolta, quindi, consiste nell’ideare, immaginare e costruire un’economia che funzioni il più possibile come un organismo, in cui le sostanze nutrienti sono elaborate e utilizzate, per poi essere reimmesse nel sistema seguendo l’idea di “ciclo chiuso” totalmente rigenerativo.
Per rendere la teoria un po’ più concreta, di seguito esamineremo un settore produttivo creando un parallelismo tra scelte orientate alla bioeconomia e scelte strutturate secondo un principio di crescita perpetua.
Visto che la teoria economica che ci apprestiamo ad analizzare muove dalle similitudini tra sistema economico e organoismo vivente, scegliamo di analizzare il settore agricolo. L’analisi che offriamo, parziale per necessità di sintesi, offre una rapida panoramica delle macro differenze e conseguenze.
L’agricoltura che doveva sfamare il mondo ha ucciso la nostra terra
Crescita demografica, disuguaglianza sociale, povertà, malnutrizione, carestie, sono problemi che ancora oggi affrontiamo ma che si sono presentati con tutta la loro forza, per la prima volta in un mondo in via di globalizzazione, nel secondo dopoguerra. Per reagire e massimizzare la produzione agricola, con il nobile obiettivo (teorico) di “sfamare il mondo” è iniziata la così detta “rivoluzione verde”, che di verde ha avuto ben poco.
Varietà vegetali geneticamente selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci, etc. una serie di scelte orientate alla massimizzazione ma non al dialogo con la natura. Una rivoluzione partita dalle Americhe che ha poi coinvolto tutti i continenti, in misura diversa, e fatto dei campi coltivati fabbriche a cielo aperto di prodotti standardizzati.
Semplificando, possiamo dire che questo tipo di approccio ha avuto 2 macro effetti: uno sul terreno e l’altro sui prodotti coltivati. Rispetto a quest’ultimo punto, quado si parla di perdita di biodiversità spesso si pensa alla diminuzione delle specie selvatiche, alla scomparsa di alcune tipologie di piante e animali che non vivono più spontaneamente in natura. Sicuramente vero ma non esaustivo. Il declino nella varietà degli organismi è una realtà drammatica anche per le piante coltivate. Ad inizio ‘900, in Italia, le varianti di grano coltivate erano circa 400, oggi ne restano solo poche decine, selezionate nei decenni per massimizzare la produzione; lo stesso dicasi per le mele, l’80% delle mele prodotte appartiene a solo 3 tipologie.
Una perdita di varietà che mette a rischio il nostro futuro alimentare, sia per ricchezza persa sia per maggiore rischio di diffusione di agenti patogeni.
Forse ancora più preoccupante, è il fenomeno dell’inaridimento del suolo che distrugge la fonte produttiva alla base della nostra sussistenza. Anni di monocultura portata all’estremo hanno ucciso la terra. Il suolo è stato privato di ogni risorsa, non è stato rigenerato, e oggi è meno produttivo (o del tutto sterile) e più arido.
Secondo il Global Land Outlook delle Nazioni Unite, un terzo del suolo terrestre è gravemente degradato a causa dell’agricoltura e ogni anno si perdono nel mondo circa 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile. Solo in Europa la cattiva gestione delle terre continua a erodere 970 milioni di tonnellate di suolo l’anno.
La terra è un sistema complesso in continua trasformazione ed evoluzione. Minerali, licheni, muschi, alghe, batteri, acqua, piante e infine animali formano, mutano ed evolvono quello che comunemente chiamiamo suolo. Processi naturali che richiedono tempi lunghissimi e non hanno la possibilità di rinnovarsi naturalmente nel caso in cui vengano deteriorati o distrutti dall’azione dell’uomo.
Una risposta circolare
Le conseguenze di un’agricoltura basate sullo sfruttamento, come abbiamo visto, sono drammatiche e solo un cambio di paradigma può oggi “salvarci” dalla depauperazione delle risorse naturali.
La bioeconomia ci viene in soccorso proponendoci un approccio integrato che prevede la comprensione delle relazioni tra i diversi fattori individuando dei processi che prevedono il riutilizzo degli scarti fino al raggiungimento della circolarità dell’attività produttiva.
Un approccio che non si esaurisce nel ritorno alle origini ma incentiva un utilizzo consapevole della scienza e della tecnologia in un’ottica di collaborazione con la natura e non di sfruttamento.
In questo tipo di approccio diventa fondamentale non solamente ridurre gli sprechi ma anche valorizzare gli scarti per produrre nuovo valore. Gli scarti animali, come quelli vegetali, diventano concimi e ammendanti per l’agricoltura. Ricchi di elementi nutritivi e in particolare di azoto, fosforo e potassio, permettono di arricchire il terreno e di migliorarne le caratteristiche fisiche. Le biomasse, scarti della produzione agroalimentare, sono invece fonte di energia o in modo diretto o attraverso la produzione di biogas.
Quella proposta è una sfida ambiziosa che il territorio sta già vincendo. In Abruzzo, ad esempio, sono diverse le imprese del settore che hanno strutturato i propri processi produttivi ispirandosi alla struttura auto-rigenerativa della biologia.
Alcune aziende – come Adi Apicoltura, Aureli società agricola e azienda agricola Delia Orsini – hanno scelto un approccio bioeconomico. Questo tipo di scelta, oltre a garantire la sostenibilità delle attività antropiche, permette di preservare il territorio. Curare e accudire la terra significa tutelare la propria fonte di sostentamento e garantire prosperità per gli anni avvenire. Accanto a scelte agricole consapevoli, come abbiamo detto, è importante associare scelte di autosufficienza energetica che permetto di rendere la produzione energetica un sistema diffuso e non esclusivamente polarizzato in grandi centrali. Da qui la decisione di Adi Apicoltura e Aureli, per esempio, di usufruire di impianti da fonti rinnovabili, quali fotovoltaico e biogas: alternative accessibili per intraprendere un importante percorso di decarbonizzazione,
Per approfondire le tematiche trattate:
https://www.naturaitalia.it/apriParagrafiArticoloSezioneMenu.do?idArticolo=60¶grafo=1
https://www.theguardian.com/news/2019/jan/28/can-we-ditch-intensive-farming-and-still-feed-the-world
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