COP 26, per leggere e dissipare i foschi presagi del futuro

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Il termometro di inizio novembre in Italia sfiora i 23°C, e con temperature da fine estate tutto il mondo rimane con il fiato sospeso aspettando la fine dei negoziati della COP 26.
Secondo Riccardo Valenti, presidente della Società italiana delle scienze del clima (Sisc), professore dell’Università della Tuscia e vincitore del premio Nobel per la Pace nel 2007, la COP 26, preceduta dalle vaghe direttive poco stringenti del G20 di Roma appena concluso, acquista sempre più le forme di una eco lontana della COP 21 di Parigi. La famosissima “Conferenza delle Parti” del 2015 aveva lanciato una speranza politica oltrepassando le differenze nazionali e, al netto delle contraddizioni e le difficoltà, aveva dato alla luce l’accordo di Parigi: il primo accordo mondiale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici.

Ripartiamo da Parigi per capire la COP26 e i nuovi orizzonti.
Il 12 dicembre 2015 i 196 Stati membri delle Nazioni Unite hanno concordato, al termine della conferenza e all’unanimità, un patto globale per ridurre le emissioni dei gas serra e si sono dati appuntamento ad oggi per rivedere i loro piani nazionali in vista degli obiettivi prefissati, tra i quali:
• mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali come obiettivo a lungo termine;
• puntare a limitare l’aumento a 1,5°C, per ridurre in misura significativa i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici.

Il 2 novembre 2021 i 196 Paesi del mondo sono stati chiamati in Scozia a negoziare i loro impegni per il clima da qui al 2030. Riusciranno ad accordarsi per evitare l’innalzamento delle temperature di 2,7°C?
Questo è l’esame finale la cui riuscita scongiurerebbe quello che l’Unep, l’Agenzia per l’ambiente delle Nazioni Unite, chiama una vera e propria catastrofe ambientale. A Glasgow, quindi, si stanno svolgendo i “parziali” di questa determinante valutazione.

Ci siamo preparati adeguatamente?
I pronostici non sono dei migliori e le cose non partono bene: meno di 10 nazioni hanno formalmente aumentato i propri Contributi determinanti nazionali (Ndc), ovvero i piani generali nazionali per l’azione per il clima, poco più di una dozzina si è impegnata con un secondo Ndc e per lo più la maggior parte hanno presentato solo vaghi annunci circa politiche di riduzione dei gas serra, non ancora formalmente comunicate, tra cui la Cina una delle potenze industriali più in crescita.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla COP26?
Sebbene le soluzioni tecniche e scientifiche per far fronte alle esigenze di completa neutralità da carbon fossile non siano ancora definitivamente risolutive, la scienza sta facendo passi da gigante e siamo consapevoli di quanto essa possa essere veloce ed efficacie, soprattutto all’interno di un contesto di cooperazione fra parti e nazioni. Ricordiamoci sempre che la tecnologia e la tecnica sono solo degli strumenti modellati da obiettivi politici. La scienza non cammina su binari separati dalla società e dai bisogni riconosciuti dalla medesima. Non possiamo quindi rifugiarci dietro a degli accordi mancati o troppo deboli a causa delle presunte inefficienze tecniche. Quello che manca è una presa di coscienza netta e immediata. Quello che è ragionevole aspettarsi dalla COP26, quindi, non sono delle risposte tecniche ma delle posizioni politiche, le stesse che determinano i flussi di denaro e di impegno professionale verso lo sviluppo di economie sostenibili e l’accrescimento dello spirito risolutivo dell’innovazione tecnologica.
Questo è essenziale da un punto di vista mondiale ma la guerra si vince vincendo le battaglie e le battaglie si fanno sui territori, con le comunità. La COP 26 deve osservare il locale, gli sforzi, le volontà e gli slanci presenti sui territori, con le loro diversità ma con lo stesso obiettivo: difendere e curare il proprio habitat. Abbiamo molte più risorse di quelle che vogliamo vedere, come istituzioni pubbliche, imprese del territorio, movimenti sociali e cittadini. Abbiamo quindi bisogno di crederci: uno slancio collettivo che parta dal basso per costruire una socialità ed un’economia reale consapevoli e responsabili. Pertanto, quello che è ancora ragionevole aspettarsi dalla COP 26 è un impegno concreto -finanziario e politico- delle istituzioni nazionali nei confronti delle imprese sostenibili -seriamente certificate- delle associazioni che lavorano sul territorio per la promozione sociale, culturale e ambientale, delle scuole che formano i cittadini e delle istituzioni pubbliche che garantiscano e controllino il raggiungimento degli obiettivi e non sviliscano le nuove e buone iniziative. Infine, quello che ci aspettiamo dagli Stati della COP 26 è lo sforzo di pensare in grande per nutrire i germogli.

 

 

Note:

con riferimento all’intervista a Riccardo Valenti si veda “Il 2060? Sarà troppo tardi e l’Italia rischia più di altri”  di Francesco Malfetano ne Il Messaggero (2/11/2021) articolo;

per approfondimenti: “Clima & Geopolitica, la COPO 26 in 5 domande” di Francesca Gambarini ne L’economia del Futuro del Corriere della Sera (1/11/2021).

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