Greenwashing: l’altra faccia della sostenibilità

STRUMENTALIZZARE LE BUONE PRATICHE PER OTTENERE CREDIBILITÀ SUI MERCATI. IL GREENWASHING, UNA PRATICA DA COMBATTERE

Dalla tv, ai giornali fino ad arrivare ai social rimbalza il termine greenwashing, discusso e dibattuto da esperti e non. Si tratta di un neologismo inglese, “ambientalismo di facciata” o “ipocrisia verde”, un fenomeno dilagato a partire dagli anni ’80 ed oggi ancora diffuso.

Dietro questo termine si nascondono pratiche di comunicazione e/o di marketing utilizzate come facciata per esaltare gli effetti positivi di iniziative ecosostenibili, ma che in realtà sono false e non veritiere; il greenwashing permette di occultare gli impatti ambientali negativi e dannosi. Stratagemmi per conquistare la fiducia dell’opinione pubblica, in maniera subdola creando cattiva informazione.
Vaghezza di obiettivi; opache direttive, spesso poco stringenti e irrilevanti; mancanza di metriche oggettive, standardizzate e condivise con le quali valutare l’effettiva entità delle pratiche comunicate e di conseguenza dei risultati conseguiti. È questo il terreno fertile alla base del fenomeno.
Più l’attenzione alle tematiche ambientali è diventata preminente, più il greenwashing si è diffuso; dalle pratiche aziendali è diventato un espediente utilizzato dalle lobby delle grandi multinazionali e dai governi affinché il sistema basato sull’economia lineare resti immutato. I tentativi di greenwashing non mancano, sono molteplici e variegati: dai calcoli fittizi sulla decarbonizzazione, alle annunciate riduzioni degli impatti ambientali, fino all’uso strumentale dei fondi orientati ai criteri ESG nella finanza green.

La sostenibilità è solo uno slogan pubblicitario?

La sostenibilità è diventata quindi, in alcuni casi, uno slogan pubblicitario seguito da molti e perseguito seriamente e concretamente da pochi. Molte aziende la considerano come una mera opportunità di business.
Come riporta Il Sole 24 Ore, da una indagine effettuata dalla Commissione europea insieme alle Autorità nazionali di tutela dei consumatori nel 2021, nel 42% dei casi analizzati le informazioni riportate delle aziende sono risultate non veritiere e considerate pratiche commerciali sleali; un trend crescente rispetto al 2020.
Il rischio per chi promuove e incoraggia questo fenomeno è alto, se scovato può minare fortemente la credibilità e la reputazione di un brand, producendo un effetto boomerang dannoso per l’azienda.
Oggi si stanno proponendo azioni di contrasto alle pratiche di greenwashing. Una delle proposte riguarda le affermazioni generiche come “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile”, “rispettoso del clima”, “neutralità carbonica” o “biodegradabile” che troviamo continuamente sui prodotti che acquistiamo; l’obiettivo è di vietare queste etichette se la prestazione non è dimostrata e verificata da un ente indipendente e certificato. È possibile pensare che perseguendo questa strada si potranno avere delle ricadute reali e concrete, così da generare una reazione a catena, favorendo mercati equi, dove il consumatore sceglie prodotti realmente sostenibili, innescando così una risposta competitiva del mercato, incoraggiando anche la concorrenza.

Quando i processi di compensazione possono essere considerati greenwashing?                     

I processi di compensazione sono misure aziendali di mitigazione messe in campo per minimizzare gli impatti negativi derivanti dai cicli produttivi di una specifica organizzazione. Questi processi potrebbero essere considerati pratiche di greenwashing, nel caso in cui la compensazione di tipo energetica o ambientale, con l’installazione di pannelli solari o un processo di forestazione, avvenga a migliaia di chilometri dalle sedi dei i cicli produttivi. Questi processi per avere un impatto migliorativo devono essere integrati all’interno dell’azienda rispetto ad una relazione di prossimità legata al territorio in cui opera e lavora. Quindi una proficua compensazione, può offrire un grande margine di miglioramento rispetto alle esternalità negative inevitabili di una azienda, deve essere attuata sul territorio prossimo di riferimento e valutate attraverso l’indice di autosufficienza energetica, attraverso cui è possibile ricondurre una valutazione univoca della produzione e del consumo energetico a 360°.

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