La COP 26 e il silenzio delle imprese

La COP 26 si è conclusa sabato 13 novembre e in questi giorni si stanno facendo i conti su ciò che resta dietro tante speranze e altrettante preoccupazioni. La debolezza degli accordi, le poche direttive stringenti, le politiche frammentarie fra i diversi stati sovrani e la poca collaborazione fra i paesi, che risultato hanno portato? Il ridimensionamento degli obiettivi.

Secondo Boris Johnson la diplomazia internazionale può incoraggiare, sostenere buone politiche, spronare, fare pressione ma non può costringere stati sovrani. Eppure la diplomazia è fatta di parole e le parole sono importanti.
Prendiamo ad esempio la scelta del ministro indiano, in extremis, di sostituire “phasing out” (eliminazione graduale) con “phasing down” (riduzione graduale), riferito all’utilizzo dei carbon fossili, all’interno di un emendamento al Patto Climatico, sembra di poco conto, eppure da una lieve inclinazione semantica possono nascere maree di incomprensioni e zone di ombra: ibridità che fanno paura.
È la stessa paura che riconosce Alok Sharma, presidente della COP 26, chiedendo scusa a tutti i delegati – soprattutto quelli dei Paesi in via di sviluppo ai quali si chiede uno sforzo importante verso la transizione energetica senza delle chiare direzioni di cooperazione e supporto finanziario da parte dei Paesi più sviluppati e più “inquinatori” – per questi accordi al ribasso:

– riduzione di emissioni per il 2030 attraverso la riformulazione dei piani nazionali;
– un accordo di cooperazione tra Usa e Cina per mantenere il riscaldamento terrestre sotto la soglia di 1,5°C;
– stop alla deforestazione e all’emissione di metano entro il 2030.

Diplomazia VS economia reale
E le realtà economiche nazionali come si collocano in questa discussione? In silenzio.

È doveroso riconoscere una grandissima distanza fra la diplomazia mondiale e le economie reali. Se per questo evento si è sentita forte la pressione (così come la delusione) dei giovani ambientalisti, dei movimenti mondiali che partono dal basso e chiedono cura, cura verso il loro futuro, non è stato sentito lo stesso coinvolgimento da parte delle imprese, ovvero tutti quegli operatori economici che determinano la produttività delle nazioni. Un convitato di pietra, pesante e silente.

Si fa ancora tanta difficoltà a riconoscere l’esigenza di sostenere fattivamente dei nuovi modelli produttivi che siano realmente differenti e che permettano di far fronte alla sfida della transizione energetica. Questi nuovi modelli devono essere concretamente replicabili nel tessuto socioeconomico reale, dove aziende e enti, siano essi sociali o di formazione, hanno la responsabilità di dare vita a professionalità consapevoli e risolutive.

Ad imprenditori, lavoratori, formatori e membri attivi della società non si sa cosa chiedere; soprattutto non si sa che direzione suggerire. La vera debolezza di un accordo come quello di Glasgow è l’incapacità di dare sicurezza e regole ai motori reali della nostra struttura economica.

Cosa è mancato
Sono mancate delle vere riflessioni sul concetto di territorialità, condivisione sociale, riutilizzo di risorse e approvvigionamento locale. In questa ipotetica discussione sarebbe rientrata anche la necessità di supportare soluzioni alternative alla tradizionale gestione energetica, quali, ad esempio, sistemi autonomi ed intelligenti di produzione ed utilizzo di energia rinnovabile, ovvero le comunità energetiche.
Non basta spingere sulle rinnovabili in modo generico, è necessario creare dei sistemi funzionali, strumentali e finanziari che regolino la produzione, la distribuzione e il consumo di energia all’interno di un’idea di comunità economica e sociale territoriale.
Con la stessa urgenza si sarebbe potuto analizzare il concetto di riutilizzo/rigenerazione delle materie prime seconde, da affiancare (e non da confondere) con quello di riciclo.

Spiragli positivi
Di qualcosa però si è parlato: l’IFRS Foundation (International Financial Reporting Standards Foundation) ha annunciato la creazione del nuovo l’International Sustainability Standards Board (ISSB) a cui è affidato il compito di procedere alle azioni di consolidamento con Climate Disclosure Standards Board (CDSB), il sistema di standard internazionali che dovrebbero ordinare il sistema finanziario e tassonomico per imprese, autorità locali, governi e investitori di un sistema globale di misurazione e rendicontazione ambientale. Si parla quindi di nuovi, stringenti e più sostanziali ESG (Environmental, Social, and Corporate Governance).
La speranza è che non sia solo una chimera ma un vero e proprio filo di Arianna – anche e soprattutto a servizio delle piccole e medie imprese – per districarsi nell’attuale nebbioso labirinto finanziario.

Poca soddisfazione ma grande consapevolezza
Insomma, la fine di questo processo diplomatico mondiale ha lasciato l’amaro in bocca soprattutto in considerazione delle grandi innovazioni tecnico-scientifiche raggiunte e le forti spinte sociali mostrate a livello internazionale, idonee a sciogliere impasse pericolose – spesso sovradimensionate per celare concreti modelli alternativi di vita e sviluppo.
Per accrescere questa consapevolezza e per alimentare la spinta verso un modello sostenibile, bisogna avere cura e dialogare con le realtà economiche e sociali locali, alle quali è affidata la responsabilità di preservare quotidianamente i luoghi e le comunità.

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