
La prima comunità in Puglia
“Abbiamo sempre pensato che la transizione ecologica sia importante per il nostro territorio” racconta Lucilla Parisi, sindaca del piccolo paese pugliese di Roseto Valfortore.
Una realtà in cui il concetto di comunità energetica si è palesato nella sua forma più naturale.
Infatti Roseto ha sviluppato un progetto per due turbine eoliche e una nuova forma di società energetica, in parte pubblica e in parte privata. Il piccolo parco eolico è stato inaugurato nel 2012 ed è ancora oggi funzionante. Nonostante le difficoltà dei permessi lenti e delle questioni legali, hanno raggiunto il loro obiettivo.
“Cerchiamo di costruire un modello per lo sviluppo locale auto-sostenibile che si basa sulla valorizzazione di tutte le risorse endogene del territorio: persone, fonti di energia alternativa, cultura” aggiunge.
Una piccola grande rivoluzione che parte dal basso. Arranca a causa delle normative che si accavallano e dei tempi biblici della burocrazia, ma è anche la prova tangibile e reale che l’economia circolare è possibile solo se nasce e cresce nel territorio.
Tutto parte dal territorio
L’Italia ha una storia antica di comunità e cooperative energetiche, interrotta nel 1963 dalla nazionalizzazione della produzione e della distribuzione elettrica da parte di Enel e riemersa dopo la liberalizzazione del mercato dell’energia. È una dimensione fertile che stimola le iniziative collettive dal basso, come abbiamo visto.
I piccoli centri urbani si prestano facilmente alle formazioni delle CER perché possono essere perimetrate all’interno di un’isola energetica che consente, dal punto di vista fisico, una minore dispersione energetica possibile.
Le CER rappresentano uno dei pochi strumenti per sperimentare la transizione energetica non solo come un passaggio di tecnologie ma anche come un cambio di mentalità per giungere a una reale condivisione di energia, fra autoproduzione e autoconsumo, permettendo un protagonismo attivo da parte dei cittadini di una comunità.
Dibattito sul PNRR
Il fondamento teorico del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) si basa sulle capacità intrinseche della società di rielaborare la crisi per una nuova concezione di ecosistemi. La parola resilienza può assumere più interpretazioni a seconda della nostra posizione ideologica: chi deve resistere ad un cambiamento e chi deve resistere ad un non-cambiamento.
C’è chi crede che questa sia un’occasione per aprire le porte a una semplificazione spiccia, a una trasformazione amministrativa sciolta, che può dare il fianco inevitabilmente a libertà individuali spregiudicate e di dubbia eticità, sotto l’egida del: l’importante è fare, non perdere l’occasione. Tuttavia conosciamo già i possibili effetti nefasti che queste logiche comportano e i debiti che lasceranno in futuro.
Sull’altro fronte la resilienza si trasforma in: manteniamo il fronte invariato, resistiamo nelle modalità e nelle forme che conosciamo perché queste sono abbastanza forti; non modifichiamo le regole tradizionali che assicurano una trasparenza anche a costo dell’inefficacia e dell’impossibilità di realizzare la trasformazione sistemica di cui il nostro Paese ha bisogno.
Due sono i problemi fondamentali nell’attuazione del PNRR e risiedono:
1) nella insidiosa e ritardataria macchina burocratica nazionale che amministra il grande potenziale di investimento del PNRR.
2) il tessuto imprenditoriale che deve fattualmente attuare tali investimenti e non sembra ancora pronto a realizzare.
Come spendere questi soldi?
Per cercare di fare ordine in questo ginepraio bisogna cominciare dalla base. Il PNRR è un’occasione per modificare il nostro modo di produzione, consumo e interpretazione del nostro ambiente socio-culturale. Per fare questo, è necessario ristabilire la priorità di un’azione volta ad una trasformazione culturale.
Tutto ciò significa:
- dare spazio primariamente a tutti quei progetti che riguardano la transizione culturale condivisa attraverso investimenti indirizzati alla scuola, all’Università, alla formazione professionale e alle iniziative di promozione socio-culturale; strumenti volti a sensibilizzare non solo le nuove generazioni ma anche quelle, per così dire, “consolidate”.
- Incentivare la diffusione della letteratura tecnica e scientifica ambientale, al fine di educare e ri-educare a una cultura che abbia come principio l’uso e il riuso sapiente della risorsa, ovvero, un antidoto a tutte quelle esternalità negative che permangono all’interno della civiltà dei consumi.
L’altro grande ostacolo per la realizzazione della missione numero due – rivoluzione verde e transizione ecologica– del Piano Nazionale è sicuramente la farraginosa operazione di semplificazione normativa, necessaria allo snellimento delle procedure e all’accelerazione dei relativi iter di approvazione, in modo da creare le migliori condizioni per una celere esecuzione dei progetti. Difatti, strutturare un finanziamento che nasce come emergenziale non può essere il percorso corretto. Dopo secoli di “bizantinismi” si è chiamati all’operazione inversa: risolvere semplificando. Sì ma come?
La risposta sarebbe quella di dare voce ed ascoltare il territorio. Rispettando e incentivando il principio della sussidiarietà, il PNRR deve essere attuato attraverso investimenti infrastrutturali che siano una risposta alle esigenze specifiche di ciascun territorio, creando i presupposti per il proprio sviluppo concreto. Inoltre, sarebbe auspicabile coinvolgere e chiamare per la realizzazione degli investimenti le stesse imprese del territorio, al fine di snellire i tradizionali vincoli e affrontare le difficoltà burocratiche attraverso, eventualmente, la creazione di reti aziendali locali. Questo sistema farebbe affidamento anche sulla responsabilità diretta degli cittadini che lavorano nella stessa area di riferimento, limitando così la penetrazione di imprese di dubbia reputazione e l’intervento di multinazionali che agiscono attraverso la tortuosa catena di subappalti e delle speculazioni sui prezzi, a causa della quale alle imprese e ai lavoratori locali, spesso, non rimangono che briciole.
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